domenica 26 novembre 2017

Eburacum: sulle tracce di una toponimo

Qual’è l’origine del toponimo Eburacum, appartenuto a diverse città, come nel caso di York, e Evry, ma anche ssociato ad alcune stirpi di origine ebraica, fra queste, secondo alcuni ricercatori, anche quella del primo Maestro dei Templari, Hugo de Pagani, indicato come Eb(u)raico(1)

Secondo la tradizione britannica, il toponimo Eburacum e legato alle vicende del capostipite dei Britanni, Bruto o Brito.
Nella "Historia Brittonum" si narra che capostipite dei britanni fu Brito o Bruto[2], discendente dai superstiti della guerra di Troia (figlio o nipote di Enea).
Enea, dopo la guerra di Troia, si stabilì in Italia (Etruria) e suo figlio Ascanio fondò Alba Longa. Da Ascanio o da Silvius, identificato come il secondo figlio di Enea, nacque Bruto, la cui madre morì di parto. Il ragazzo, di nome Brutus, in una battuta di caccia uccise accidentalmente suo padre con una freccia, per questo venne bandito dall’Italia.


Dopo essere stato esiliato dall'Etruria, Bruto scappò in Grecia, dove si riunì ad altri "ARCADI", giunse quindi nell'isola di Creta e nel tempio di Diana ebbe la visione della terra destinata alla sua discendenza: un'isola nel mare occidentale, abitata solo da pochi giganti.

A seguito di alcune avventure in Nord Africa e ad un incontro ravvicinato con le sirene, Bruto scopre un altro gruppo di Troiani esiliati che vivono sulle rive del Mar Tirreno, guidati da un prodigioso guerriero chiamato: Corineo, che in seguito divenne re della Cornovaglia. Dopo aver vagato tra le isole del Mar Tirreno, Bruto, attraversò la Gallia, dove fondò la città di Tours, e infine giunse in Gran Bretagna, divenendo il capostipite del popolo dei britanni. Il suo regno corrisponderebbe al tempo del sommo sacerdote Eli, giudice e custode dell'Arca dell'Alleanza, in Silo, quando l'Arca dell'Alleanza venne presa dal Filistei. (rif. Et in Arcadia Ego: i Mitidei Popoli del Mare).
Il nipote di Brito (secondo Goffredo di Monmouth) sarà Ebrauco (o Eburiaco), che ebbe venti mogli, venti figli e trenta figlie: le figlie le mandò spose in Etruria,.
Appare anche singolare il fatto che il nome degli Eber (Eburones) sia anche associato ai Pelasgi, popolazione pre-greca il cui ricordo era ancora vivo inepoca classica. Omero cita i Pelasgi di Creta (Od. XIX 178).
Anche Erodoto conosce i Pelasgi e lidescrive come gente che parlava una lingua non greca e che viveva nella città di Crestone (vicinoSalonicco).

Pelasgos, secondo la "Periegesi della Grecia" di Pausania (110-180 dC), fu il primo uomo" (…) egli generò i Pelasgi, venne dall’Arcadia e insegnò come costruire capanne, comenutrirsi di ghiande e come cucire tuniche simili a quelle indossate dal popolo degli Eburones”.

La Bibbia conosce i Pelasgi nella Genesi e li nomina tra coloro che ripopolarono la terra; Eber, antenato di Abraham ha-‘ibri (l’ebreo), del quale si dice: “Questa è la discendenza dei figli di Noè:Sem, Cam e Japhet. Anche a Sem, padre di tutti i figli di ‘Eber (kol-bne-‘Eber) nacque unadiscendenza. A ‘Eber nacquero due figli: uno si chiamò Pelasg (…)” (Gen. 10,1.21.25).
Erodoto scrisse che le figlie di Danao portarono i misteri di Demetra-Iside in Grecia, divulgandolisolo alle donne dei Pelasgi. Questi misteri furono conservati solo presso gli Arcadi della tribù degli Alfei di discendenza davidica.



Il racconto di Erodoto, messo in scena anche da Eschilo nellatrilogia delle Danaidi, è un fil rouge che collega gli Eburones alla tribù d'Alfeo. Secondo la tradizione cristiana Giacomo (detto il Giusto), figlio di Alfeo, fratello di San Giuseppe e marito di Maria di Cleofa, sarebbe stato, il cugino di Gesù.
In Grecia, sbarcando ad Igoumenitsa, percorrendo un centinaio di chilometri verso Prèveza, si arriva ad una collina vicino al villaggio di Messopòtamo in cima alla quale c’è il Nekromanteion, un santuario composto da una serie di gallerie e di camere ipogee, esistente fin da epoca micenea. Qui venne Ulisse ad interrogare l’ombra di Tiresia per conoscere le vicissitudini che lo attendevano lungo il viaggio di ritorno ad Itaca: Ulisse fece sgozzare alcune pecore e versò il sangue in una fossa perché l’indovino potesse berne e quindi vaticinare. Questo rituale doveva essere antichissimo, i greci (e forse prima di loro popolazioni pre greche) chiamavano questo luogo ’Eϕύρα, che è l’equivalente greco di Ebur.
Una delle aree in Europa, dove si trova gran copia di dolmen e menhir, è il dipartimento di Eure in Normandia, il cui capoluogo è Évreux. Questa cittadina è rimasta famosa perché Giulio Cesare nel “De bello gallico” ne descrive gli abitanti come appartenenti ad una delle tribù degli Aulerci, quella degli Eburovici. È abbastanza evidente che Eburovici in latino vuol dire “quelli che abitano il vicus di Ebur”.
Ebur(i)aci latinizzato è importante e diffuso nel mondo celtico, in Irlanda al tempo di Santa Brigida troviamo un vescovo Eburius e ancora il vescovo Eborius di Eburiacum (York) partecipante al concilio di Arles del 314. (da Acta Sanctorum Hiberniae, Edimburgo 1888, cit. in Cambridge, Storia del mondo medievale, vol. II, p. 315).
York come Ivry deriva da “Eburiacum”, luogo degli Eburones, detti talvolta Biturigi o Biturgi (in lingua latina Bituriges), ovvero il “popolo dei tassi” (Cesare, De bello gallico, VI, 16-28), che fu un’antica tribù celtica divisa in due rami, abitanti entrambe nelle fertilissime campagne al centro della Gallia transalpina, non lontano dagli Edui.
I Biturigi si definivano “i re del mondo”: il termine era fatto derivare da bitu (o byth, byd), che significa “mondo”, e dal plurale della parola rix, “re”. Dai Biturigi prende nome anche la regione del Berry e le città di Bourges e Bordeaux. Tito Livio parla dei Biturigi nel V libro della sua Storia di Roma: «[…] Mentre a Roma regnava Tarquinio Prisco, il supremo potere dei Celti era nelle mani dei Biturigi, questi mettevano a capo di tutti i Celti il re Ambigato, uomo assai potente per valore e ricchezza, sia propria che pubblica, perché sotto il suo governo la Gallia fu così ricca di prodotti e di uomini da sembrare che la numerosa popolazione si potesse a stento dominare».

La discendenza degli Alfei sebrerebbe richiamare il mito greco del dio Alfeo, il figlio di Oceano, che si innamorò della splendida Aretusa, la quale fuggì dalle sue attenzioni scampando sull’isola di Ortigia, a Siracusa, dove venne tramutata in una fonte dalla dea Artemide. Zeus, commosso dal dolore di Alfeo, lo mutò a sua volta in un fiume, che si inabissò sotto il Mare Ionio, per raggiungere l’amata Aretesa.
Il mito di Alfeo è il simbolo di un percorso iniziatico, appartemuto alle antiche religioni misteriche, quando l’adepto si trovava a scendere nell’Oltretomba per incontrare, al termine delle prove iniziatiche la sua controparte animica, nel rito delle Nozze Sacre, strumento di ogni resurrezione nella nuova Luce.
La tradizione arcadica è da sempre appartenuta alla città di Pisa, soprannominata appunto la città alfea (dal fiume Alfeo in Elide), aggiungendo che, secondo alcuni storici antichi, Pisa venne fondata dai guerrieri achei, il che rapresenterebbe un interessante intreccio con i leggendari Pelasgi,discendeti da Eber,la leggenda di Brito o Bruto capostipite dei Britanni e quella delle figlie di Danao.
I da Vecchiano erano conosciuti nelle leggende come appartenenti alla consorteria dei “mi Beth El” (ovvero traducendo dall’ebraico “della casa del Signore”) che vantavano un antichissima nobiltà ‘Alfea’, arrivata a Pisa sotto l’imperatore Tito159.n
In questo contesto sembra assumere rilevana unparticolare famiglia, i da Vecchiano, conosciuti nelle leggende come appartenenti alla consorteria dei “mi Beth El” (ovvero traducendo dall’ebraico “della casa del Signore”) che vantavano un antichissima nobiltà ‘Alfea’, arrivata a Pisa sotto l’imperatore Tito.
Il topnimo Eburacum sembrerebbe quindi essere all’origine di un mito, come quello greco di Alfeo volto ad unire un midtero che unisce l’'Arcadia, gli Etruschi (Popoli del Mare) e la sacra stirpe del Graal, tanto da poter affermare: Et in Arcadia Ego.


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NOTA: Goffredo di Monmouth: Storia dei Re di Britannia, racconta più o meno la stessa storia, ma in modo più dettagliato. [6] In questa versione, Bruto è esplicitamente il nipote, piuttosto che il figlio, di Ascanio; suo padre è Ascanio figlio Silvius. Il mago che prevede grandi cose per il nascituro Bruto predice anche che ucciderà entrambi i genitori. Conferma anche quanto descritto nella Historia Brittonum (il padre morì in un cidente, la madre durante il parto), per cui fu bandito dall'Italia. Dopo essere stato bandito dall'Italia andò in Grecia, dove scoprì un gruppo di troiani asservito lì. Egli diventa il loro capo (...) Come abili "Umini del Mare" I Troiani sbarcarono su un'isola deserta e scoprire un tempio abbandonato a Diana . Dopo aver eseguito il rituale del caso, Bruto si addormenta davanti alla statua della dea ed è dato una visione della terra in cui egli è destinato a stabilirsi, un'isola nel mare occidentale, abitata solo da pochi giganti. Dopo alcune avventure in Nord Africa e un incontro ravvicinato con le sirene , Bruto scopre un altro gruppo di Troani esiliati che vivono sulle rive del Mar Tirreno , guidati dal guerriero Corineo (...) Il Nipote di Bruto, Turonus, muore nei combattimenti, e il luogo dove venne sepolto divenne la città di Tours. I Troiani vinsero la maggior parte delle loro battaglie, ma consapevoli che i Galli erano numerosi, decisero di riprendere le loro navi e vela dirigendosi in Gran Bretagna, che allora si chiamava Albion . Sbarcarono a " Totonesium Litus '-' mare-costa di Totnes " dove sconfissero i discendenti dei giganti di Albion. Bruto rinomina l'isola a se stesso e diventa il suo primo re. Corineo diventa sovrano di Cornovaglia , che prende il nome di lui. [7] Essi sono molestati dai giganti durante una festa, ma uccidono tutti loro, ma il loro capo, il più grande gigante Goemagot , che viene salvato per un incontro di lotta contro Corineo. Corineo lo getta sopra una scogliera alla sua morte. Bruto poi fonda una città sulle rive del Tamigi , che egli chiama Troia Nova, o Nuova Troia . Il nome è in tempo corrotto per trinovantum , e la città è in seguito chiamato Londra . [8] Egli crea leggi per il suo popolo e le regole per ventiquattro anni. Dopo la sua morte è sepolto in trinovantum, e l'isola è divisa tra i suoi tre figli: Locrino ( Inghilterra ), albanatto ( Scozia ) e Kamber ( Galles ).
Secondo Goffredo di Monmouth, il nipote di Brito si chiama Ebrauco (o Eburiaco), che ebbe venti mogli, venti figli e trenta figlie: le figlie le mandò spose in Etruria. Nella storia di Goffredo successivamente il re dei britanni sarà Alvirago (...)
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M.Agostini, Et nin Arcadia Ego i miti dei Popoli del Mare, Tipheret Editore, 2017
[2] Non dimentichiamo ancora questa altra coincidenza della suocera di Plinio il Giovane (Pompeia Celerina) e sul capostipite dei britanni Brito (Brittius).


sabato 18 novembre 2017

Maria Maddalena e la sacra coppa

Tratto dal libro di Massimo Agostini: "Et in Arcadia Ego: i miti dei Popoli del Mare", Tipheret editore.

6. Maria Maddalena e la sacra coppa
Il Graal rappresenta per la cristianità la sacra coppa dell’ultima cena con la quale Giuseppe di Arimatea raccolse il sangue del Cristo crocefisso, per poi condurla con sé in Inghilterra.
Come reliquia associata al sangue di Cristo, il Graal ispirò nel tempo tantissimi romanzi e poemi che diedero origine al mito di re Artù e dei cavalieri della tavola rotonda alla ricerca della sacra coppa.
Secondo altre leggende fu invece Maria Maddalena, fuggita dalla Terrasanta, a portare con sé il Santo Graal nel sud della Francia, attribuendo alla coppa il significato di racham = utero o Kelì = recipiente o coppa, essendo lei incinta del suo sacro sposo e pertanto colma del sangue di Gesù.
La Dea cananea dell’amore, raffigurata con il serpente e il gi­glio, sembra quindi preannunciare la “Leggenda Aurea” di Maria Maddalena, riconoscendo nel serpente il simbolo della tribù di Dan e del suo sacerdozio, e nel giglio quello della linea di sangue della stirpe davidica, che in lei trovò nuova linfa divina.
Come tutte le Dee del passato, anche Maria Maddalena è espressione del dualismo spirituale, essendo al contempo Apo­stola degli Apostoli, ma anche indemoniata prostituta dalla qua­le furono cacciati sette demoni. La schizofrenica considerazione della Chiesa nei confronti della prediletta dal Signore potreb­be esprimere, in modo velato, la condizione spirituale di Maria Maddalena, al contempo principessa di Magdala e sacerdotessa nel tempio della Dea che, come Iside fece con Osiride, partecipa alla resurrezione di Cristo, il Re dei Re, perpetrando il sangue della stirpe regale attraverso il nuovo Rex Deus, ovvero il nuovo Nasi Ha-Edah e ‘Maestro di Giustizia’ della Casa di Davide. Ma così non fu!
La leggenda narra infatti che da quell’accoppiamento sacro nacque una figlia femmina[1] e, per diritto regale, il titolo passò al parente maschio più prossimo a Gesù, ovvero al fratello Gia­como che per questo venne detto il ‘Giusto’, divenendo nuovo capo della ‘comunità’ cristiana a Gerusalemme.
Le successive persecuzioni subite da quella comunità da parte di altre fazioni ebraiche, e la conseguente uccisione di Giacomo, nel 62 d.C., furono all’origine dell’esilio di Maria Maddalena e di sua figlia nel sud della Francia,
Il dono del sangue davidico di Gesù, perpetrato attraverso il calice della sua amata sposa, Maria Maddalena, divenne per alcu­ni il fondamento di un culto legato a Maria Maddalena, che nella sua sacralità sacerdotale, rappresentava la Dea di tutti i tempi.
Da qualunque parte sia posta la verità, un dato sembra co­munque emergere da quanto finora analizzato: il dono divino viene concesso all’umanità in nome, non di un Dio, ma bensì di una Dea, capace di collegare ciò che è in terra con ciò che è in cielo, attraverso le alchemiche nozze con il Dio risorto.
Che si chiami Iside o Maria-Miryam di Magdala poco impor­ta, rappresentando ognuna di loro l’archetipo della sposa eterna e, come tale, Santo Graal del seme di un Dio, ovvero Sacra Ma­dre che dona salvezza all’umanità.

La stessa segreta conoscenza divina, trasmessa all’uomo all’origine del suo divenire sulla terra, parla al femminile, come nel caso di Eva, attraverso il serpente del Paradiso Terrestre, o Inanna, con i “Me”, sottratti dalla dimora di An, o Iside che in­vece la carpì al dio Ra. In ogni mito è comunque la componente femminile (eros), sacro tempio e anima del mondo, a decretare il compimento del percorso iniziatico.
L’altro attore di queste mitiche storie è uno spirito da alcuni chiamato angelo ribelle o Lucifero, ma da altri venerato come Dio: il biblico serpente che, tramite la mediazione di Eva, con­cesse all’uomo la luce della “conoscenza” e, con essa, la consape­volezza di essere egli stesso un “Dio”. Quell’angelo ribelle appare quindi simile ai tanti Dèi dell’antica religione portatori di cono­scenza all’umanità.




[1] Margaret Starbird, Maria Maddalena e il Santo Graall, Mondadori, Milano 2013.
per approfondire




Lilith: il lato oscuro della Luna.

tratto dal libro di Massimo Agostini: "Et in Arcadia Ego: i miti dei Popoli del Mare", Tipheret editore.

Lilith: il lato oscuro della Luna. 
Come la luna ha un suo lato oscuro non baciato dal sole, allo stesso modo la Dea dell’antica religione è espressione di una dua­le essenza della sua anima, essendo legata sia al mondo delle te­nebre, sia a quello della luce.
Eva, Innana, Iside, Astarte sono tutte espressioni divine della dualità insita nell’anima dell’universo che si alimenta nel magico equilibrio tra luce e tenebra, bene e male, armonia e caos, amore ed eros.
Ogni mito racconta dell’alchemico connubio tra le prepotenti forze della natura, risolvibili solo nella luce salvifica donata dal magico amplesso degli Dèi.
L’anima degli uomini è immagine di quella degli Dèi e il mito rappresenta la strada da intraprendere. 
Il percorso “realizzativo”, attraverso i tortuosi sentieri iniziatici, richiede, per l’uomo, come per gli Dèi, l’intima fusione delle forze duali dell’anima nell’al­chemico sposalizio celeste.


Nel mitico tempo del Paradiso Terrestre l’anima di Eva trovò la sua controparte duale in Lilith, la prima moglie di Adamo ed espressione dell’anima femminile non sottomessa a quella ma­schile, per questo considerata dalla storia come essere infernale e pericoloso.
R. Hanina disse: non si può dormire soli in casa [in una casa solitaria], e chiunque dorma in una casa da solo è preso da Lilith. (Shabbath 151b).
Ella vaga a notte fonda, vessando i figli degli uomini e spin­gendoli a rendersi impuri (Zohar 19b).
Per gli Ebrei, Lilith è il demone notturno, espressione del potere magico della sessualità femminile capace di sedurre gli uomini nel sonno, operando anche malefici sui bambini, vendi­candosi dell’antico torto di essere stata ripudiata da Adamo per non essersi sottomessa al suo volere.
Lilith, al pari di Adamo, non fu generata, ma creata dal Si­gnore attraverso il suo “sputo” vivificante (anche in questo caso il racconto biblico riecheggia il mito sumero del Dio Enki che generò nella Montagna Sacra le “teste nere” della terra di Sumer impregnando la creta con lo sputo degli Dèi).

Lilith, avendo le stesse prerogative di Adamo, si mostrò da su­bito non sottomessa ai voleri del suo compagno che, non soppor­tando questa indipendenza, la ripudiò. Allora il Signore decise di plasmare una “donna” da una costola estratta da Adamo, al fine di renderla sottomessa all’uomo, essendo carne della sua carne. È così che fu generata la remissiva Eva (Gen. 2: 22-23).
Poiché il magico gioco dell’amore ha in genere il gusto delle conquiste difficili, Adamo, se avesse potuto liberamente scegliere, avrebbe forse preferito sedurre l’intrigante, sensuale e spregiu­dicata Lilith, piuttosto che la remissiva Eva.
Il desiderio di Adamo per Lilith è testimoniato da alcuni sa­cri testi dove si narra che Adamo, dopo essere stato cacciato dal Paradiso, avendo la consapevolezza di una vita non più eterna, la­sciò Eva preferendo la “carnalità insalubre” della seduttrice Lilith con la quale visse centotrent’anni di “dissolutezze”.

      "E Adamo visse cento e trenta anni e generò un figlio a lui somi­gliante (Seth, come Abele, è fratello di Caino), fatto a sua imma­gine, e da ciò segue che prima di quel tempo non avesse generato a sua immagine… quando vide che attraverso di lui la morte era divenuta punizione spese cento e trenta anni in dissolutezze, tagliò i ponti con sua moglie per 130 anni, indossò vestiti di fico per 130 anni".[1]

Secondo un’antica leggenda scritta da un anonimo nel X se­colo d.C., fu Lilith ad abbandonare Adamo non trovando piace­re nel modo in cui lui la possedeva sessualmente, volendo essere lei a comandare ilgioco stando sopra di lui, piuttosto che essere posseduta, stando sotto di lui e fu così che disse: “Non starò sotto di te… Per te è adatto stare solamente sotto, mentre io sono per stare sopra”.[2]



Dopo essere stata ripudiata, Lilith scappò dal Paradiso ma­ledicendo il Signore, rifugiandosi nella terra dei Sumeri, dove divenne l’amante del demone Asmodeo, anche lui Dio della di­struzione, dell’ira e della vendetta, identificato, come tanti altri Dèi degli inferi, con il serpente.
Adamo non si diede mai pace per la perdita della bellissima Lilith e più volte implorò il Signore di ricondurla a lui, ma la sua natura mortale era comunque incompatibile con quella eterna di Lilith, il cui destino era ormai legato per sempre ai demoni.

(...)


5. Il giglio e il serpente: simboli di una sacra stirpe
Lilith nella tradizione iconografica viene raffigurata con un sen­suale corpo nudo, avvolto dalle spire del serpente, evocando il potere insito nella conoscenza (serpente) concessa nel magico connubio tra desiderio e intelletto intuitivo.
Lilith, con il nome di Lilitu (signora dell’aria e della morte) era già presente nel mito sumero come sacra sposa del Dio Enlil (Asmodeo?), alla stregua della Dea Ereshkigal, la “signora degli inferi”, che rappresentava l’anima demoniaca di Innana.
L’anima oscura di Iside è invece rappresentata dalla Dea Ha­tor, ma anche dalla sorella Neftis, incestuosa sposa del Dio Seth.
 Anche nel culto della terra di Canaan l’anima di Astarte aveva la sua controparte demoniaca nella Dea Anat, la focosa amante di Ba’al. Astarte, indicata come Qadesh, la “Santa”, veniva raf­figurata, come tante Dee dell’antica religione, completamente nuda e con gli organi sessuali bene in mostra, tenendo nelle mani il serpente e in alcuni casi anche fiori di giglio.
Come sappiamo, il serpente è sinonimo di conoscenza insita nella madre natura, capace di rigenerarsi attraverso la rinascita e, per questo, fonte di ogni realizzazione.
Ma quello che colpisce in queste raffigurazioni è ritrovare il serpente associato al giglio, quest’ultimo considerato in Occi­dente simbolo di purezza, innocenza e verginità, tanto da rap­presentare la Madonna e alcuni Santi.
Nel caso della Dea cananea dell’amore, il giglio che tiene nella mano non rappresenta però il casto fiore dell’Occidente, ma il giglio rosso, l’anemone carnale della Palestina con l’afrodisiaca essenza del miele e di piccanti spezie d’Oriente, simile al pro­fumo dei corpi degli amanti, impregnati dell’acre e dolciastro miscuglio dei loro sensuali umori.

Il giglio, o fleur de lis, è anche il simbolo della città di Firenze, di tante nobili stirpi e dei Tem­plari, con analogie al sigillo dell’Ordine del Tau, come a volere indicare il legame degli Etruschi alla sacra stirpe del Graal, dando forse ragione alle ipotesi inviatemi dall’accademico toscano sul pisano Ugo Pagano Venuleii, primo Gran Maestro dei Templari.


Il giglio e il serpente insieme completano il simbolismo evo­cativo della Dea nel culto sacerdotale dell’amore iniziatico
Un amore vissuto nella sacralità dell’eros e nell’amplesso che unisce corpo, anima e mente all’universo intero, affinché le energie car­nalmente distinte possano fondersi nell’Uno spirituale indistin­to. Solo nel rispetto di questo cerimoniale dell’antica tradizione potrà scaturire la nuova anima luminosa che, come l’Araba Fe­nice, risplenderà nel nuovo Rex Deus di stirpe divina, risorgendo dalle ceneri dell’Uno, che è al contempo padre e madre.


Non è un caso che il giglio venne assunto nel Medioevo come simbolo araldico da alcune dinastie reali dell’Europa, quale espressione della loro discendenza divina. Come non è certamen­te un caso che tra le prime dinastie medievali a usare il giglio come emblema fu quella Merovingia con il re Clodoveo, ritenuta Sacra Stirpe del Graal.





[1] Lilith nel Talmud: Sebbene i riferimenti talmudici a Lilith siano sporadici, tali passaggi forniscono la miglior immagine del demone trovata finora nella lette­ratura giudaica, che fa riferimento alle origini mesopotamiche di Lilith e prefigura il suo futuro come enigma esegetico della Genesi. Ricordando Lilith abbiamo visto allusioni Talmudiche che la dipingono come dotata di ali e lunghi capelli, andando indietro alla prima citazione in Gilgamesh: «Rab Judah citando Samuele dice: Se un aborto ha somiglianza con Lilith, sua madre è impura a causa della nascita, perché è un bimbo ma ha le ali». (Niddah 24b)
«[Spiegando le maledizioni dell’esser donna] In un Baraitha è insegnato: Le crescono lunghi capelli come a Lilith, siede a bere acqua come le bestie e serve da cuscino a suo marito». (’Erubin 100b)
Più unica del Talmud, in merito a Lilith, è la sua carnalità insalubre, cui si allu­de nella “Seduttrice” ma che è espansa senza metafore vaghe nell’idea del demone che assume forma di donna per abusare sessualmente di uomini durante il loro sonno: «R. Hanina disse: non si può dormire soli in casa [in una casa solitaria], e chiunque dorma in una casa da solo è preso da Lilith». (Shabbath 151b)
Tuttavia la concezione più innovativa di Lilith offerta dal Talmud appare in Erubin, ed è più che probabile che sia responsabile del mito di Lilith per i secoli a venire. http://www.genesibiblica.eu, voce Lilith.
[2] Gershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Milano, 1965. La prima fonte nella storia che descrive Lilith come la prima moglie di Adamo è L’al­fabeto di Ben-Sira, intitolato a Yeshua ben Sira (II sec. a.C.) ma in realtà di autore anonimo, scritto nel X secolo d.C. (wikipedia.org)