domenica 24 dicembre 2017

La Massoneri della Parola


La Massoneri della Parola: CONFERENZA ROMA novembre 2017 - Organizzata dal Rito di York Alcuni brani tratti dalla relazione di Massimo Agostini



domenica 26 novembre 2017

Eburacum: sulle tracce di una toponimo

Qual’è l’origine del toponimo Eburacum, appartenuto a diverse città, come nel caso di York, e Evry, ma anche ssociato ad alcune stirpi di origine ebraica, fra queste, secondo alcuni ricercatori, anche quella del primo Maestro dei Templari, Hugo de Pagani, indicato come Eb(u)raico(1)

Secondo la tradizione britannica, il toponimo Eburacum e legato alle vicende del capostipite dei Britanni, Bruto o Brito.
Nella "Historia Brittonum" si narra che capostipite dei britanni fu Brito o Bruto[2], discendente dai superstiti della guerra di Troia (figlio o nipote di Enea).
Enea, dopo la guerra di Troia, si stabilì in Italia (Etruria) e suo figlio Ascanio fondò Alba Longa. Da Ascanio o da Silvius, identificato come il secondo figlio di Enea, nacque Bruto, la cui madre morì di parto. Il ragazzo, di nome Brutus, in una battuta di caccia uccise accidentalmente suo padre con una freccia, per questo venne bandito dall’Italia.


Dopo essere stato esiliato dall'Etruria, Bruto scappò in Grecia, dove si riunì ad altri "ARCADI", giunse quindi nell'isola di Creta e nel tempio di Diana ebbe la visione della terra destinata alla sua discendenza: un'isola nel mare occidentale, abitata solo da pochi giganti.

A seguito di alcune avventure in Nord Africa e ad un incontro ravvicinato con le sirene, Bruto scopre un altro gruppo di Troiani esiliati che vivono sulle rive del Mar Tirreno, guidati da un prodigioso guerriero chiamato: Corineo, che in seguito divenne re della Cornovaglia. Dopo aver vagato tra le isole del Mar Tirreno, Bruto, attraversò la Gallia, dove fondò la città di Tours, e infine giunse in Gran Bretagna, divenendo il capostipite del popolo dei britanni. Il suo regno corrisponderebbe al tempo del sommo sacerdote Eli, giudice e custode dell'Arca dell'Alleanza, in Silo, quando l'Arca dell'Alleanza venne presa dal Filistei. (rif. Et in Arcadia Ego: i Mitidei Popoli del Mare).
Il nipote di Brito (secondo Goffredo di Monmouth) sarà Ebrauco (o Eburiaco), che ebbe venti mogli, venti figli e trenta figlie: le figlie le mandò spose in Etruria,.
Appare anche singolare il fatto che il nome degli Eber (Eburones) sia anche associato ai Pelasgi, popolazione pre-greca il cui ricordo era ancora vivo inepoca classica. Omero cita i Pelasgi di Creta (Od. XIX 178).
Anche Erodoto conosce i Pelasgi e lidescrive come gente che parlava una lingua non greca e che viveva nella città di Crestone (vicinoSalonicco).

Pelasgos, secondo la "Periegesi della Grecia" di Pausania (110-180 dC), fu il primo uomo" (…) egli generò i Pelasgi, venne dall’Arcadia e insegnò come costruire capanne, comenutrirsi di ghiande e come cucire tuniche simili a quelle indossate dal popolo degli Eburones”.

La Bibbia conosce i Pelasgi nella Genesi e li nomina tra coloro che ripopolarono la terra; Eber, antenato di Abraham ha-‘ibri (l’ebreo), del quale si dice: “Questa è la discendenza dei figli di Noè:Sem, Cam e Japhet. Anche a Sem, padre di tutti i figli di ‘Eber (kol-bne-‘Eber) nacque unadiscendenza. A ‘Eber nacquero due figli: uno si chiamò Pelasg (…)” (Gen. 10,1.21.25).
Erodoto scrisse che le figlie di Danao portarono i misteri di Demetra-Iside in Grecia, divulgandolisolo alle donne dei Pelasgi. Questi misteri furono conservati solo presso gli Arcadi della tribù degli Alfei di discendenza davidica.



Il racconto di Erodoto, messo in scena anche da Eschilo nellatrilogia delle Danaidi, è un fil rouge che collega gli Eburones alla tribù d'Alfeo. Secondo la tradizione cristiana Giacomo (detto il Giusto), figlio di Alfeo, fratello di San Giuseppe e marito di Maria di Cleofa, sarebbe stato, il cugino di Gesù.
In Grecia, sbarcando ad Igoumenitsa, percorrendo un centinaio di chilometri verso Prèveza, si arriva ad una collina vicino al villaggio di Messopòtamo in cima alla quale c’è il Nekromanteion, un santuario composto da una serie di gallerie e di camere ipogee, esistente fin da epoca micenea. Qui venne Ulisse ad interrogare l’ombra di Tiresia per conoscere le vicissitudini che lo attendevano lungo il viaggio di ritorno ad Itaca: Ulisse fece sgozzare alcune pecore e versò il sangue in una fossa perché l’indovino potesse berne e quindi vaticinare. Questo rituale doveva essere antichissimo, i greci (e forse prima di loro popolazioni pre greche) chiamavano questo luogo ’Eϕύρα, che è l’equivalente greco di Ebur.
Una delle aree in Europa, dove si trova gran copia di dolmen e menhir, è il dipartimento di Eure in Normandia, il cui capoluogo è Évreux. Questa cittadina è rimasta famosa perché Giulio Cesare nel “De bello gallico” ne descrive gli abitanti come appartenenti ad una delle tribù degli Aulerci, quella degli Eburovici. È abbastanza evidente che Eburovici in latino vuol dire “quelli che abitano il vicus di Ebur”.
Ebur(i)aci latinizzato è importante e diffuso nel mondo celtico, in Irlanda al tempo di Santa Brigida troviamo un vescovo Eburius e ancora il vescovo Eborius di Eburiacum (York) partecipante al concilio di Arles del 314. (da Acta Sanctorum Hiberniae, Edimburgo 1888, cit. in Cambridge, Storia del mondo medievale, vol. II, p. 315).
York come Ivry deriva da “Eburiacum”, luogo degli Eburones, detti talvolta Biturigi o Biturgi (in lingua latina Bituriges), ovvero il “popolo dei tassi” (Cesare, De bello gallico, VI, 16-28), che fu un’antica tribù celtica divisa in due rami, abitanti entrambe nelle fertilissime campagne al centro della Gallia transalpina, non lontano dagli Edui.
I Biturigi si definivano “i re del mondo”: il termine era fatto derivare da bitu (o byth, byd), che significa “mondo”, e dal plurale della parola rix, “re”. Dai Biturigi prende nome anche la regione del Berry e le città di Bourges e Bordeaux. Tito Livio parla dei Biturigi nel V libro della sua Storia di Roma: «[…] Mentre a Roma regnava Tarquinio Prisco, il supremo potere dei Celti era nelle mani dei Biturigi, questi mettevano a capo di tutti i Celti il re Ambigato, uomo assai potente per valore e ricchezza, sia propria che pubblica, perché sotto il suo governo la Gallia fu così ricca di prodotti e di uomini da sembrare che la numerosa popolazione si potesse a stento dominare».

La discendenza degli Alfei sebrerebbe richiamare il mito greco del dio Alfeo, il figlio di Oceano, che si innamorò della splendida Aretusa, la quale fuggì dalle sue attenzioni scampando sull’isola di Ortigia, a Siracusa, dove venne tramutata in una fonte dalla dea Artemide. Zeus, commosso dal dolore di Alfeo, lo mutò a sua volta in un fiume, che si inabissò sotto il Mare Ionio, per raggiungere l’amata Aretesa.
Il mito di Alfeo è il simbolo di un percorso iniziatico, appartemuto alle antiche religioni misteriche, quando l’adepto si trovava a scendere nell’Oltretomba per incontrare, al termine delle prove iniziatiche la sua controparte animica, nel rito delle Nozze Sacre, strumento di ogni resurrezione nella nuova Luce.
La tradizione arcadica è da sempre appartenuta alla città di Pisa, soprannominata appunto la città alfea (dal fiume Alfeo in Elide), aggiungendo che, secondo alcuni storici antichi, Pisa venne fondata dai guerrieri achei, il che rapresenterebbe un interessante intreccio con i leggendari Pelasgi,discendeti da Eber,la leggenda di Brito o Bruto capostipite dei Britanni e quella delle figlie di Danao.
I da Vecchiano erano conosciuti nelle leggende come appartenenti alla consorteria dei “mi Beth El” (ovvero traducendo dall’ebraico “della casa del Signore”) che vantavano un antichissima nobiltà ‘Alfea’, arrivata a Pisa sotto l’imperatore Tito159.n
In questo contesto sembra assumere rilevana unparticolare famiglia, i da Vecchiano, conosciuti nelle leggende come appartenenti alla consorteria dei “mi Beth El” (ovvero traducendo dall’ebraico “della casa del Signore”) che vantavano un antichissima nobiltà ‘Alfea’, arrivata a Pisa sotto l’imperatore Tito.
Il topnimo Eburacum sembrerebbe quindi essere all’origine di un mito, come quello greco di Alfeo volto ad unire un midtero che unisce l’'Arcadia, gli Etruschi (Popoli del Mare) e la sacra stirpe del Graal, tanto da poter affermare: Et in Arcadia Ego.


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NOTA: Goffredo di Monmouth: Storia dei Re di Britannia, racconta più o meno la stessa storia, ma in modo più dettagliato. [6] In questa versione, Bruto è esplicitamente il nipote, piuttosto che il figlio, di Ascanio; suo padre è Ascanio figlio Silvius. Il mago che prevede grandi cose per il nascituro Bruto predice anche che ucciderà entrambi i genitori. Conferma anche quanto descritto nella Historia Brittonum (il padre morì in un cidente, la madre durante il parto), per cui fu bandito dall'Italia. Dopo essere stato bandito dall'Italia andò in Grecia, dove scoprì un gruppo di troiani asservito lì. Egli diventa il loro capo (...) Come abili "Umini del Mare" I Troiani sbarcarono su un'isola deserta e scoprire un tempio abbandonato a Diana . Dopo aver eseguito il rituale del caso, Bruto si addormenta davanti alla statua della dea ed è dato una visione della terra in cui egli è destinato a stabilirsi, un'isola nel mare occidentale, abitata solo da pochi giganti. Dopo alcune avventure in Nord Africa e un incontro ravvicinato con le sirene , Bruto scopre un altro gruppo di Troani esiliati che vivono sulle rive del Mar Tirreno , guidati dal guerriero Corineo (...) Il Nipote di Bruto, Turonus, muore nei combattimenti, e il luogo dove venne sepolto divenne la città di Tours. I Troiani vinsero la maggior parte delle loro battaglie, ma consapevoli che i Galli erano numerosi, decisero di riprendere le loro navi e vela dirigendosi in Gran Bretagna, che allora si chiamava Albion . Sbarcarono a " Totonesium Litus '-' mare-costa di Totnes " dove sconfissero i discendenti dei giganti di Albion. Bruto rinomina l'isola a se stesso e diventa il suo primo re. Corineo diventa sovrano di Cornovaglia , che prende il nome di lui. [7] Essi sono molestati dai giganti durante una festa, ma uccidono tutti loro, ma il loro capo, il più grande gigante Goemagot , che viene salvato per un incontro di lotta contro Corineo. Corineo lo getta sopra una scogliera alla sua morte. Bruto poi fonda una città sulle rive del Tamigi , che egli chiama Troia Nova, o Nuova Troia . Il nome è in tempo corrotto per trinovantum , e la città è in seguito chiamato Londra . [8] Egli crea leggi per il suo popolo e le regole per ventiquattro anni. Dopo la sua morte è sepolto in trinovantum, e l'isola è divisa tra i suoi tre figli: Locrino ( Inghilterra ), albanatto ( Scozia ) e Kamber ( Galles ).
Secondo Goffredo di Monmouth, il nipote di Brito si chiama Ebrauco (o Eburiaco), che ebbe venti mogli, venti figli e trenta figlie: le figlie le mandò spose in Etruria. Nella storia di Goffredo successivamente il re dei britanni sarà Alvirago (...)
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M.Agostini, Et nin Arcadia Ego i miti dei Popoli del Mare, Tipheret Editore, 2017
[2] Non dimentichiamo ancora questa altra coincidenza della suocera di Plinio il Giovane (Pompeia Celerina) e sul capostipite dei britanni Brito (Brittius).


sabato 18 novembre 2017

Maria Maddalena e la sacra coppa

Tratto dal libro di Massimo Agostini: "Et in Arcadia Ego: i miti dei Popoli del Mare", Tipheret editore.

6. Maria Maddalena e la sacra coppa
Il Graal rappresenta per la cristianità la sacra coppa dell’ultima cena con la quale Giuseppe di Arimatea raccolse il sangue del Cristo crocefisso, per poi condurla con sé in Inghilterra.
Come reliquia associata al sangue di Cristo, il Graal ispirò nel tempo tantissimi romanzi e poemi che diedero origine al mito di re Artù e dei cavalieri della tavola rotonda alla ricerca della sacra coppa.
Secondo altre leggende fu invece Maria Maddalena, fuggita dalla Terrasanta, a portare con sé il Santo Graal nel sud della Francia, attribuendo alla coppa il significato di racham = utero o Kelì = recipiente o coppa, essendo lei incinta del suo sacro sposo e pertanto colma del sangue di Gesù.
La Dea cananea dell’amore, raffigurata con il serpente e il gi­glio, sembra quindi preannunciare la “Leggenda Aurea” di Maria Maddalena, riconoscendo nel serpente il simbolo della tribù di Dan e del suo sacerdozio, e nel giglio quello della linea di sangue della stirpe davidica, che in lei trovò nuova linfa divina.
Come tutte le Dee del passato, anche Maria Maddalena è espressione del dualismo spirituale, essendo al contempo Apo­stola degli Apostoli, ma anche indemoniata prostituta dalla qua­le furono cacciati sette demoni. La schizofrenica considerazione della Chiesa nei confronti della prediletta dal Signore potreb­be esprimere, in modo velato, la condizione spirituale di Maria Maddalena, al contempo principessa di Magdala e sacerdotessa nel tempio della Dea che, come Iside fece con Osiride, partecipa alla resurrezione di Cristo, il Re dei Re, perpetrando il sangue della stirpe regale attraverso il nuovo Rex Deus, ovvero il nuovo Nasi Ha-Edah e ‘Maestro di Giustizia’ della Casa di Davide. Ma così non fu!
La leggenda narra infatti che da quell’accoppiamento sacro nacque una figlia femmina[1] e, per diritto regale, il titolo passò al parente maschio più prossimo a Gesù, ovvero al fratello Gia­como che per questo venne detto il ‘Giusto’, divenendo nuovo capo della ‘comunità’ cristiana a Gerusalemme.
Le successive persecuzioni subite da quella comunità da parte di altre fazioni ebraiche, e la conseguente uccisione di Giacomo, nel 62 d.C., furono all’origine dell’esilio di Maria Maddalena e di sua figlia nel sud della Francia,
Il dono del sangue davidico di Gesù, perpetrato attraverso il calice della sua amata sposa, Maria Maddalena, divenne per alcu­ni il fondamento di un culto legato a Maria Maddalena, che nella sua sacralità sacerdotale, rappresentava la Dea di tutti i tempi.
Da qualunque parte sia posta la verità, un dato sembra co­munque emergere da quanto finora analizzato: il dono divino viene concesso all’umanità in nome, non di un Dio, ma bensì di una Dea, capace di collegare ciò che è in terra con ciò che è in cielo, attraverso le alchemiche nozze con il Dio risorto.
Che si chiami Iside o Maria-Miryam di Magdala poco impor­ta, rappresentando ognuna di loro l’archetipo della sposa eterna e, come tale, Santo Graal del seme di un Dio, ovvero Sacra Ma­dre che dona salvezza all’umanità.

La stessa segreta conoscenza divina, trasmessa all’uomo all’origine del suo divenire sulla terra, parla al femminile, come nel caso di Eva, attraverso il serpente del Paradiso Terrestre, o Inanna, con i “Me”, sottratti dalla dimora di An, o Iside che in­vece la carpì al dio Ra. In ogni mito è comunque la componente femminile (eros), sacro tempio e anima del mondo, a decretare il compimento del percorso iniziatico.
L’altro attore di queste mitiche storie è uno spirito da alcuni chiamato angelo ribelle o Lucifero, ma da altri venerato come Dio: il biblico serpente che, tramite la mediazione di Eva, con­cesse all’uomo la luce della “conoscenza” e, con essa, la consape­volezza di essere egli stesso un “Dio”. Quell’angelo ribelle appare quindi simile ai tanti Dèi dell’antica religione portatori di cono­scenza all’umanità.




[1] Margaret Starbird, Maria Maddalena e il Santo Graall, Mondadori, Milano 2013.
per approfondire




Lilith: il lato oscuro della Luna.

tratto dal libro di Massimo Agostini: "Et in Arcadia Ego: i miti dei Popoli del Mare", Tipheret editore.

Lilith: il lato oscuro della Luna. 
Come la luna ha un suo lato oscuro non baciato dal sole, allo stesso modo la Dea dell’antica religione è espressione di una dua­le essenza della sua anima, essendo legata sia al mondo delle te­nebre, sia a quello della luce.
Eva, Innana, Iside, Astarte sono tutte espressioni divine della dualità insita nell’anima dell’universo che si alimenta nel magico equilibrio tra luce e tenebra, bene e male, armonia e caos, amore ed eros.
Ogni mito racconta dell’alchemico connubio tra le prepotenti forze della natura, risolvibili solo nella luce salvifica donata dal magico amplesso degli Dèi.
L’anima degli uomini è immagine di quella degli Dèi e il mito rappresenta la strada da intraprendere. 
Il percorso “realizzativo”, attraverso i tortuosi sentieri iniziatici, richiede, per l’uomo, come per gli Dèi, l’intima fusione delle forze duali dell’anima nell’al­chemico sposalizio celeste.


Nel mitico tempo del Paradiso Terrestre l’anima di Eva trovò la sua controparte duale in Lilith, la prima moglie di Adamo ed espressione dell’anima femminile non sottomessa a quella ma­schile, per questo considerata dalla storia come essere infernale e pericoloso.
R. Hanina disse: non si può dormire soli in casa [in una casa solitaria], e chiunque dorma in una casa da solo è preso da Lilith. (Shabbath 151b).
Ella vaga a notte fonda, vessando i figli degli uomini e spin­gendoli a rendersi impuri (Zohar 19b).
Per gli Ebrei, Lilith è il demone notturno, espressione del potere magico della sessualità femminile capace di sedurre gli uomini nel sonno, operando anche malefici sui bambini, vendi­candosi dell’antico torto di essere stata ripudiata da Adamo per non essersi sottomessa al suo volere.
Lilith, al pari di Adamo, non fu generata, ma creata dal Si­gnore attraverso il suo “sputo” vivificante (anche in questo caso il racconto biblico riecheggia il mito sumero del Dio Enki che generò nella Montagna Sacra le “teste nere” della terra di Sumer impregnando la creta con lo sputo degli Dèi).

Lilith, avendo le stesse prerogative di Adamo, si mostrò da su­bito non sottomessa ai voleri del suo compagno che, non soppor­tando questa indipendenza, la ripudiò. Allora il Signore decise di plasmare una “donna” da una costola estratta da Adamo, al fine di renderla sottomessa all’uomo, essendo carne della sua carne. È così che fu generata la remissiva Eva (Gen. 2: 22-23).
Poiché il magico gioco dell’amore ha in genere il gusto delle conquiste difficili, Adamo, se avesse potuto liberamente scegliere, avrebbe forse preferito sedurre l’intrigante, sensuale e spregiu­dicata Lilith, piuttosto che la remissiva Eva.
Il desiderio di Adamo per Lilith è testimoniato da alcuni sa­cri testi dove si narra che Adamo, dopo essere stato cacciato dal Paradiso, avendo la consapevolezza di una vita non più eterna, la­sciò Eva preferendo la “carnalità insalubre” della seduttrice Lilith con la quale visse centotrent’anni di “dissolutezze”.

      "E Adamo visse cento e trenta anni e generò un figlio a lui somi­gliante (Seth, come Abele, è fratello di Caino), fatto a sua imma­gine, e da ciò segue che prima di quel tempo non avesse generato a sua immagine… quando vide che attraverso di lui la morte era divenuta punizione spese cento e trenta anni in dissolutezze, tagliò i ponti con sua moglie per 130 anni, indossò vestiti di fico per 130 anni".[1]

Secondo un’antica leggenda scritta da un anonimo nel X se­colo d.C., fu Lilith ad abbandonare Adamo non trovando piace­re nel modo in cui lui la possedeva sessualmente, volendo essere lei a comandare ilgioco stando sopra di lui, piuttosto che essere posseduta, stando sotto di lui e fu così che disse: “Non starò sotto di te… Per te è adatto stare solamente sotto, mentre io sono per stare sopra”.[2]



Dopo essere stata ripudiata, Lilith scappò dal Paradiso ma­ledicendo il Signore, rifugiandosi nella terra dei Sumeri, dove divenne l’amante del demone Asmodeo, anche lui Dio della di­struzione, dell’ira e della vendetta, identificato, come tanti altri Dèi degli inferi, con il serpente.
Adamo non si diede mai pace per la perdita della bellissima Lilith e più volte implorò il Signore di ricondurla a lui, ma la sua natura mortale era comunque incompatibile con quella eterna di Lilith, il cui destino era ormai legato per sempre ai demoni.

(...)


5. Il giglio e il serpente: simboli di una sacra stirpe
Lilith nella tradizione iconografica viene raffigurata con un sen­suale corpo nudo, avvolto dalle spire del serpente, evocando il potere insito nella conoscenza (serpente) concessa nel magico connubio tra desiderio e intelletto intuitivo.
Lilith, con il nome di Lilitu (signora dell’aria e della morte) era già presente nel mito sumero come sacra sposa del Dio Enlil (Asmodeo?), alla stregua della Dea Ereshkigal, la “signora degli inferi”, che rappresentava l’anima demoniaca di Innana.
L’anima oscura di Iside è invece rappresentata dalla Dea Ha­tor, ma anche dalla sorella Neftis, incestuosa sposa del Dio Seth.
 Anche nel culto della terra di Canaan l’anima di Astarte aveva la sua controparte demoniaca nella Dea Anat, la focosa amante di Ba’al. Astarte, indicata come Qadesh, la “Santa”, veniva raf­figurata, come tante Dee dell’antica religione, completamente nuda e con gli organi sessuali bene in mostra, tenendo nelle mani il serpente e in alcuni casi anche fiori di giglio.
Come sappiamo, il serpente è sinonimo di conoscenza insita nella madre natura, capace di rigenerarsi attraverso la rinascita e, per questo, fonte di ogni realizzazione.
Ma quello che colpisce in queste raffigurazioni è ritrovare il serpente associato al giglio, quest’ultimo considerato in Occi­dente simbolo di purezza, innocenza e verginità, tanto da rap­presentare la Madonna e alcuni Santi.
Nel caso della Dea cananea dell’amore, il giglio che tiene nella mano non rappresenta però il casto fiore dell’Occidente, ma il giglio rosso, l’anemone carnale della Palestina con l’afrodisiaca essenza del miele e di piccanti spezie d’Oriente, simile al pro­fumo dei corpi degli amanti, impregnati dell’acre e dolciastro miscuglio dei loro sensuali umori.

Il giglio, o fleur de lis, è anche il simbolo della città di Firenze, di tante nobili stirpi e dei Tem­plari, con analogie al sigillo dell’Ordine del Tau, come a volere indicare il legame degli Etruschi alla sacra stirpe del Graal, dando forse ragione alle ipotesi inviatemi dall’accademico toscano sul pisano Ugo Pagano Venuleii, primo Gran Maestro dei Templari.


Il giglio e il serpente insieme completano il simbolismo evo­cativo della Dea nel culto sacerdotale dell’amore iniziatico
Un amore vissuto nella sacralità dell’eros e nell’amplesso che unisce corpo, anima e mente all’universo intero, affinché le energie car­nalmente distinte possano fondersi nell’Uno spirituale indistin­to. Solo nel rispetto di questo cerimoniale dell’antica tradizione potrà scaturire la nuova anima luminosa che, come l’Araba Fe­nice, risplenderà nel nuovo Rex Deus di stirpe divina, risorgendo dalle ceneri dell’Uno, che è al contempo padre e madre.


Non è un caso che il giglio venne assunto nel Medioevo come simbolo araldico da alcune dinastie reali dell’Europa, quale espressione della loro discendenza divina. Come non è certamen­te un caso che tra le prime dinastie medievali a usare il giglio come emblema fu quella Merovingia con il re Clodoveo, ritenuta Sacra Stirpe del Graal.





[1] Lilith nel Talmud: Sebbene i riferimenti talmudici a Lilith siano sporadici, tali passaggi forniscono la miglior immagine del demone trovata finora nella lette­ratura giudaica, che fa riferimento alle origini mesopotamiche di Lilith e prefigura il suo futuro come enigma esegetico della Genesi. Ricordando Lilith abbiamo visto allusioni Talmudiche che la dipingono come dotata di ali e lunghi capelli, andando indietro alla prima citazione in Gilgamesh: «Rab Judah citando Samuele dice: Se un aborto ha somiglianza con Lilith, sua madre è impura a causa della nascita, perché è un bimbo ma ha le ali». (Niddah 24b)
«[Spiegando le maledizioni dell’esser donna] In un Baraitha è insegnato: Le crescono lunghi capelli come a Lilith, siede a bere acqua come le bestie e serve da cuscino a suo marito». (’Erubin 100b)
Più unica del Talmud, in merito a Lilith, è la sua carnalità insalubre, cui si allu­de nella “Seduttrice” ma che è espansa senza metafore vaghe nell’idea del demone che assume forma di donna per abusare sessualmente di uomini durante il loro sonno: «R. Hanina disse: non si può dormire soli in casa [in una casa solitaria], e chiunque dorma in una casa da solo è preso da Lilith». (Shabbath 151b)
Tuttavia la concezione più innovativa di Lilith offerta dal Talmud appare in Erubin, ed è più che probabile che sia responsabile del mito di Lilith per i secoli a venire. http://www.genesibiblica.eu, voce Lilith.
[2] Gershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Milano, 1965. La prima fonte nella storia che descrive Lilith come la prima moglie di Adamo è L’al­fabeto di Ben-Sira, intitolato a Yeshua ben Sira (II sec. a.C.) ma in realtà di autore anonimo, scritto nel X secolo d.C. (wikipedia.org)


sabato 28 ottobre 2017

Giordano Bruno:"avete più paura voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla"

"avete più paura voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla"
(...) ci facciano compagnia le tre Luci della Forza, della Bellezza e della Sapienza.
Agli Uomini Liberi dico volate alto (...)
Ad ogni uomo dite all'orecchio il vostro segreto profondo: tu sei mio fratello, nonabbiate paura, costruite su ogni rovina (...)
Fano Teatro della Fortuna
tratto dallo spettacolo teatrale della
compagnia
"Spazio T Alghero" con:
Maurizio Pulina: Giordano Bruno
Michele Vargiu: Clemente VIII
REGIA: di Michela Murru.
Testo del giornalista Gerardo Piccardo
Evento organizzato dall'Accademia
Vitruvio Fanum

venerdì 27 ottobre 2017

I VENULEI E LA DEA VANILIA


Altro messaggio del misterioso Pastore d'Arcadia, ALGIDO TRICOLONIO

Elvers, Karl-Ludwig (Università di Bochum) sostiene che Venulei è una variante di Venilii ["Venuleius." Brill’s New Pauly. Antiquity volumes edited by: Hubert Cancik and Helmuth Schneider, 2014].

I Venilii (o gens Venilia) sono noti per la ninfa Venilia, antichissima divinità latina connessa coi mari e coi venti, legata al culto del femminino sacro e ritenuta sposa di Nettuno, legato alle leggende dei Pelasgi Alfei e di cui era conservata una statua all'ingresso della colonia Alfea (Pisa), cives romana.


http://www.romanoimpero.com/2010/05/culto-di-venilia-salacia.html


La ninfa o dea Venilia significa "essenza, discendenza da una natura divina".
Secondo l'Enciclopedia Italiana significa in senso più ampio "(..) essere divino con riferimento alle figure delle mitologie antiche e delle religioni politeiste. (...) nel sincretismo cristianesimo è riconosciuta alle persone della Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo".


ALGIDO TRICOLONIO - PASTORE D'ARCADIA


Allegata le grate ottocentesche dell'ex Hotel Nettuno sul lungarno che ricordano la collocazione della statua del Numem Pelagi (Peleset) Alfei.

L'ARCADIA DI ALGIDO TRICOLONIO messaggi dal passato


MESSAGGI DAL PASSATO 
Dopo i misteriosi messaggi che animarono le ricerche di Massimo Agostini nel libro “Et in Arcadia Ego: i miti dei Popoli del Mare”, ecco rifarsi vivo il misterioso Algido Tricolonio, Pastore d’Arcadia.

“Carissimo Massimo, 
I "pastori" Alfei (pisani) erano (o credevano di essere) pastori "d'Arcadia". E perché? 
Erodoto, scrive che le figlie di Danao portarono i misteri di Demetra-Iside in Grecia e li insegnarono alle donne dei Pelasgi (i pisani secondo tutte le tradizioni degli eruditi di Pisa): "(..) questi riti furono conservati solo presso gli Arcadi della tribù d'Alfeo".

I pastori d'Arcadia erano (o immaginavano di essere) anche i custodi della tradizione isiaca: questo è un punto decisivo per capire la ragione per cui tutti questi intellettuali si siano messi a "pastorellare" fino ad inizio novecento.

Il racconto di Erodoto, messo in scena anche da Eschilo nella trilogia delle Danaidi, è uno strano fil rouge che collega gli Arcadi della tribù d'Alfeo con quello "graaliano" attraverso la tribù di Dan ed il suo presunto legame con la dinastia dei Merovingi.

Cosa lega gli Alfei (i Pisani) alla stirpe davidica? Questo era il quesito (secondo me) dei "pastori" d'Arcadia.

Come hai scritto nel tuo libro, la diaspora di alcune tribù ebraiche iniziò già ai tempi della conquista di Canaan, come nel caso dei Shardana - Shar-dan(Principi di Dan o Popolo del Mare).
Etruschi e Shardana erano alleati e affratellati, non a caso i secondi concessero territori ai primi.
Forti erano i legami tra famiglie Etrusche e Sarde.
Se è vero che Maria Maddalena era sacerdotessa di Dan, come da te scritto, facile pensare che vi fossero rapporti con Shardana ed Etruschi.
E' quindi abbastanza evidente che ci potessero essere rapporti tra Sardi ed Etruschi ovvero dei "Shar-Dan" e degli "Alfei-Pisani" in special modo in un approdo continentale così rilevante come il porto pisano.

Giacomo d'Alfeo fu il primo vescovo della chiesa di Cristo aGerusalemme. Giacomo d'Alfeo, come dice il nome, era figlio di Alfeo, fratello di San Giuseppe ed era figlio di Maria di Clèofa (che poi è una translitterazione di Alfeo). Maria di Cléofa era una delle "Tre Marie".
Nella tradizione cristiana ufficiale Giacomo era figlio di Alfeo, quindi "cugino" di Gesù di Giuseppe.

Secondo le tradizioni che accettano una "non perenne verginità di Maria", madre di Gesù, essa sarebbe Maria di Cléofa, cioè Maria di Alfeo, avendo sposato in seconde nozze, come da tradizione, il fratello di Giuseppe: Alfeo.
E da Alfeo, avrebbe avuto come figlio appunto Giacomo il Giusto, "fratello" e non solo "cugino" di Gesù.

Quindi cosa "pastorellavano" fino a inizio novecento questi Alfei d'Arcadia?
Cercavano di legare la "leggenda" di Pisa Alfea alla consorteria sacerdotale Edomita ("Vermiglia") dei Mi Beth EL (traduzione letterale dall'ebraico è "dalla Casa del Signore") ovvero a trovare il legame tra le famiglie sacerdotali pagane (come i pisani Venulei) e le prime comunità giudeo-cristiane della "chiesa di San Giacomo e della "chiesa di San Pietro" che poi confluirono nella "chiesa di San Paolo", aperta ai pagani e degidaizzata dopo il noto incendio di Roma del 64 dC.
Grazie per aver aperta la strada ai miei documenti
A presto
Con affetto fraterno
Algido Tricolonio: il Pastore d’Arcadia

sabato 12 agosto 2017

Torre di Palme, la presentazione del libro «Et in arcadia ego. I miti dei popoli del mare»

 Si è svolta, nello splendido borgo medievale di Torre di Palme, la presentazione del libro «Et in arcadia ego. I miti dei popoli del mare» di Massimo Agostini (Tipheret - Gruppo Editoriale Bonanno).
Un viaggio condotto sulle tracce di antichi misteri, dove storia, mito, simboli e tradizioni iniziatiche hanno coinvolto il folto e partecipe pubblico.
La serata, sapientemente condotta da Jacopo Angiolini, ha visto i coinvolgenti interventi di Massimo Agostini, Francesco Bernabucci e Marco Mariani.
Tra i presenti anche Tiziano Busca, Presidente del Clan Sinclair Italia, che ha introdotto la serata sottolineando l'importante lavoro di ricerca condotto da Massimo Agostini, non solo sul piano storico, ma anche su quello simbolico e spirituale.






sabato 15 luglio 2017

"Et in Arcadia ego" - "Arcam Dei Tango Iesu"

di Agostino Agostini Venerosi della Seta

Vorrei aggiungere in questo blog qualche nota al bel saggio di Massimo Agostini "Et in Arcadia Ego, i miti dei Popolidel Mare" e suggerire una ipotesi sul carme di Ausonio del IV sec dC "(...) farò fra questi rustici la sepoltura tua famosa e celebre. Et da' monti Thoscani et da' Ligustici verran Pastori (...) Et in Arcadia Ego" oppure una suggestione di Et in Arcadia ego", anagramma di "Arcam Dei Tango Iesu", che significherebbe "Io tocco la tomba di Gesù" ovvero il sarcofago di Les Pontils, vicino Rennes-le-Château, ritratto nel quadro di Giovanni Barbieri, detto il Guercino.
 Le suggestioni sono tratte da due saggi, il primo di Massimo Adami "Pisa città dell'Ariete" ed il secondo dal volume di Paul Zanker e Björn Christian Ewald "Vivere con i miti. L’iconografia dei sarcofagi romani" entrambi del 2004. Il capitolo introduttivo del secondo saggio in particolare traccia la storia della ricezione dei sarcofagi dal Medioevo ai nostri giorni nel Cimitero monumentale di Pisa. I sarcofagi hanno una continuità funzionale poco comune: contrariamente ad altri monumenti non caddero mai in disuso della loro funzione. Il caso del sarcofago con il mito di Fedra e Ippolito, esemplifica bene il prestigio che avevano queste casse decorate nella società medievale e ancora oggi leggibili nel Cimitero Monumentale di Pisa.

Guercino: Arcam Dei Tango Iesu

Aper (da cui Apro-niani, probabile fondatore di Ivry in Normandia) è il condottiero del "cinghiale bianco" (animale totem) al quale è legata anche la fondazione della città dei Pelasgi (Peleset) Alfei, ovvero Pisa.

I volti dei Pelasgi Alfei, popolo del mare che nel 1007 fondarono lo "Stato dei Mari" (erroneamente detta Repubblica Marinara), sono scolpiti ai quattro angoli di numerosi coperchi lapidari al cimitero monumentale di Pisa, rivolti sempre verso i quattro punti cardinali a testimoniare che il loro raggio di navigazione toccava i quattro angoli della terra. 

Sarcofago utilizzato a Pisa nel 1076
per seppellire la comitissa di Canossa, Beatrice di Lotaringia

I Pastori d'Arcadia sottolineavano che i loro volti presentavano "(..)caratteri forti, capelli lunghi come i nordici, occhi infuocati d'ardore con bocche che sembrano urlare animalescamente in una scena di battaglia: una potente forza spirituale di cui erano intrisi e che sfigurava i loro volti in "connessione" con la divinità".
Arieti stilizzati come tatuaggi, simboli mai visti da nessuna altra parte che si ripetono sulle fiancate di sarcofagi definiti erroneamente etrusco-romani e che i Pastori Alfei sostenevano fossero a Pisa probabilmente da sempre.

Sarcofago del giurista ed auguro pisano Minitius Natalis,
citato nelle lettere di Plinius il giovane (Plin.Ep.vii.12,).
Sarcofagi che vennero riutilizzati più volte in varie epoche dai cittadini pisani che venivano sepolti nel Sacro Recinto, come venne fatto del resto sin dai primi tempi per il "re del tridente" e la sua cerchia di uomini e donne disposti attorno a lui dentro cerchi più piccoli.

I Pastori d'Arcadia immaginavano che proprio i pisani arcaici e i sardi fossero due delle numerose etnie che formavano il mitico popolo del mare.
In un tempo in cui non c'erano limiti di colonne sul mare, i popoli di naviganti, detti pelasgi (peleset), furono i mitici eroi del vello d'oro. 
Decorazioni dei capitelli romanici delle facciate dei palazzi pisani,
analoghe con le sculture del Camposanto Monumentale
 e della chiesa di Santa Maria della Spina,
in cui si riconoscono ancora i motivi antropomorfi,
 ovvero rappresentati i 4 punti cardinali con figure umane stilizzate
Pelasgi Alfei avevano tre categorie sociali distinte: - gli sfingidi, forse rappresentanti del potere nobiliare sacerdotale, - gli opliti, difensori delle sacre pietre, - gli OMphalos o guerrieri dell'ariete, quelli del vello d'oro. 
Non avrebbero avuto scrittura e probabilmente usavano poco la lingua parlata, ma in compenso avevano una ricchissima simbologia che per loro era un vero e proprio linguaggio che serviva a comunicare. 

II pisani conoscevano bene questo linguaggio, anche intorno al mille, infatti la piazza del Duomo fu interamente dedicata all'ariete, alla costellazione che guidava i naviganti, impressa nella posizione dei tre elementi: Battistero, Cattedrale e Torre.
La piazza del Duomo è quindi una dedica alla costellazione dell'ariete e infatti la sua edificazione inizia con la fondazione della Cattedrale, dedicata a Maria, il 25 marzo 1063, giorno in cui il sole entra in ariete e inizia l'anno secondo l'antico calendario pisano.

Anche sulle sculture e nelle architetture che in Pisa ornavano tutte le finestre con bifore, trifore e quadrifore sono stilizzate ad ariete, simbolo che imprime forza, slancio ed energia vitale e per questo motivo veniva usato come sacro.
Sarà solamente un caso che osservando le facciate esterne di tutti i monumenti e palazzi del cosiddetto Romanico pisano si riconosce nei motivi architettonici decorativi il simbolo astrologico dell'Ariete? Il susseguirsi di archetti ciechi, di forma semicircolare, e di colonnine dritte interposte tra essi richiama, in effetti, il ben noto simbolo formato da uno stelo verticale sormontato dai due corni arcuati!
Il Romanico pisano si sviluppò dalla seconda metà dell'XI alla prima del XIII secolo, all'apice della potenza dello Stato dei Mari; era appena finito il papato del pisano Bernardo (Eugenio III), discendente dei normanni Pagano da Corsena (oggi Bagni di Lucca), ovvero di Alberto (Aubert de Cravent) e di Aubree de Bayeux (contessa d’Ivry), e San Bernardo stesso legittimava il disegno di Pisa e dell'Impero Alfeo esclamando: "adsumitur Pisa in locum Romae!" (si scelga Pisa al posto di Roma!). 
Questo progetto era chiaro ai Pastori Alfei (e a poche altre persone, sconosciuto ai più) tra la fine del cinquecento e l'inizio del novecento ed ancora allo storico tedesco Rudolf Borchardt nel suo saggio "Pisa, solitudine di un impero" (volume pubblicato postumo nel 1977): Pisa, "Novella Roma", era la nuova capitale dell'Impero. La sua posizione centrale nel Mediterraneo; la sua potenza navale con legni solidi e agili, capaci di spostarsi velocemente in ogni luogo dell'Impero; la sua grandezza (ricordiamo che le mura di Cocco Griffi, iniziate nel 1115, saranno, non a caso, le più estese del Medioevo); la sua inespugnabilità con le mura in solido verrucano che neppure i cannoni dell'esercito franco-fiorentino riuscirono a scalfire tre secoli dopo, e fiumi e paludi che rendevano difficoltoso qualsiasi tentativo di conquistare la città da terra; tutte queste caratteristiche spinsero i potenti di quel secolo e di quello successivo a scegliere Pisa come nuova capitale dell'Impero. 

Architetture del Romanico pisano con il simbolo dell'ariete

Piazza del Duomo e la costellazione dell'ariete secondo
lo studio di Massimo Adami "Pisa città dell'Ariete".
 Pelasgi è anche il nome degli Eber (Eburones), popolazione pre-greca il cui ricordo era ancora vivo in epoca classica. Omero cita i Pelasgi di Creta (Od. XIX 178). Anche Erodoto conosce i Pelasgi e li descrive come gente che parlava una lingua non greca e che viveva nella città di Crestone (vicino Salonicco). Pelasgos, secondo la "Periegesi della Grecia" di Pausania (110-180 dC), fu il primo uomo “(…) egli generò i Pelasgi, venne dall’Arcadia e insegnò come costruire capanne, come nutrirsi di ghiande e come cucire tuniche simili a quelle indossate dal popolo degli Eburones”. 



Le Danaidi
di 
John William Waterhouse,1902


Erodoto scrisse che le 50 figlie di Danao (Danaidi, protagoniste di mitologiche vicende da cui sarebbe derivata l'origine del popolo dei Danai, cioè i Greci) portarono i misteri di Demetra-Iside in Grecia, divulgandoli solo alle donne dei Pelasgi. Questi misteri furono conservati solo presso gli Arcadi della tribù degli Alfei. Il racconto di Erodoto, messo in scena anche da Eschilo nella trilogia delle Danaidi, è un fil rouge che collega gli Eburones agli Arcadi della tribù di Giacomo d'Alfeo ovvero forse alla consorteria sacerdotale dei Mi Beth El arrivata a Pisa dopo il 70 dC con Tito Flavio e successivamente conosciuta come i "Da Pisa" dal 1007, secondo la Jewish Enciclopedia (1906).

 York come Ivry deriva da "Eburiacum", luogo degli Eburones, detti talvolta Biturigi o Biturgi (in lingua latina Bituriges), ovvero il "popolo dei tassi" (Cesare, De bello gallico, VI, 16-28), che fu un'antica tribù celtica, abitante nelle fertilissime campagne al centro della Gallia. I Biturigi si definivano "i re del mondo": il termine era fatto derivare da bitu (o byth, byd), che significa "mondo", e dal plurale della parola rix, rigi, "re". Questo forse è il motivo per cui schiere di intellettuali (che si definivano Pastori Arcadi della Colonia Alfea) si siano avvicendati e affannati nella ricerca dei fili conduttori e degli indizi di una storia leggendaria tra la fine cinquecento e l'inizio del novecento.


Agostino Agostini Venerosi della Seta

venerdì 14 luglio 2017

A proposito del Rito di York: l'origine di un percorso iniziatico

Nell'ambito delle mie ricerche su temi spirituali ed iniziatici, mi sono ritrovato a percorre le vie della conoscenza del più antico rito massonico: quello dell'Arco Reale, indicato anche come Rito di YORK: un rito che appartiene alla storia della massoneria e per questo definito come ancients, gli ‘antichi’, per distinguerlo dalla più moderna massoneria speculativa, emersa all'inizio del XVIII secolo, indicata ivece come moderns, ‘accettati’.
 Tra ‘moderns’ e ‘ancients’ vi è una profonda differenza iniziatica: i primi, ancora oggi, lavorano “alla ricerca della parola perduta”, che invece negli ancients è costitutiva del percorso del Maestro.
In massoneria ogni rituale, simbolo, parola, contiene un intimo significato recondito, che deve essere svelato, e poiché, nel mondo iniziatico, nulla è posto a caso, appare del tutto singolare, anche per un profano alla ricerca di verità storiche, che l'antico Rito massonico dell'Arco Reale faccia riferimento, nel suo nome, all'antica città inglese diYork. 
La città di York venne fondata dal governatore romano di Britannia, Quinto Petilio Ceriale, intorno al 71 d.C., con il nome di Eboracum o Eburacum (successivamente evolutosi nell'anglosassone Eofor-wic, poi nel Germanico del nord Jorvìc e infine nella forma attuale inglese York). 
Il termine Eburacum avrebbe il significato di "popolo dei tassi", un popolo identificato con i Biturgi (De bello gallico: VI, 16-28).
Quindi il Rito di York avrebbe il significato di "Rito degli Eburi", ovvero dei Biturgi, considerati i "Re del Mondo" (Bitu "mondo" e Rigi "Re")
Per molti autori antichi (Omero, Erodoto, Pausania, Eschilo etc..) gli Eber (Eburi) sono collegati ai Paleset (Popolo del Mare che occupò la terra di Canaan al tempo in  cui gli Shardana, altro Popolo del Mare, tentò di invadere l'Egitto, per poi diventare alleato del faraone Ramses e in seguito, al tempo di Mosè, assumere la retroguardia delle tribù di Israele verso la Terra Promessa). 

il nome Eburacum sembra anche contenere il mistero di una antica sacra stirpe: quella davidica, poiché Eber, nel Vangelo di Matteo (1,1-16), viene indicato  come antenato di Gesù. Coincidenze? 
Se è vero che per il mondo iniziatico "nulla avvinene per caso", forse non si tratta di coincidenze!
Sembrerebbe quindi esistere una sottile trama che collegherebbe gli Eburi ai Pelasgi della tribù di Giacomo di Alfeo, ovvero degli Esilarchi: i discendenti di stirpe davidica in esilio dopo la diaspora.
Quinto Petilio Ceriale Cesio Rufo fu genero dell'imperatore Vespasiano.
Vespasiano, prima di diventare imperatore, fu gennerale in Palestina e, a seguito di favori avuti da Giuseppe Flavio, ebreo e sacerdote del tempio in Galilea, lo adottò, concedendogli il nome dei Flavi. (rif. "Et in Arcadia Ego: i miti dei Popoli del Mare, Tipheret editore)
Il figlio di Vespasiano, Tito, comandò le legioni romane che nel 70 d.C. distrussero il Tempio di Gerusalemme.
Quinto Petilio Ceriale fu a capo della Legio IX Hispana: l'ultima menzione di questa legione in Britania risale al 108 d.c, ovvero dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme, quando costruì la fortezza di Eburacum (moderna York). 

 testimonianza del culto di Mitra in Eboracum

Il destino della Legio Hispana è avvolto nel mistero: nel 120 d.C la Legio Hispana fu sostituita a Eburacum dalla VI Victrix e, secondo alcune leggende, si pensa che si sia unita agli SCOTI (popolazione celtica cristianizzata proveniente dall'Irlanda e insediata nel IV secolo in Scozia), alcune iscrizioni la indicano invece nei Paesi Bassi.

Altre ipotesi vedono la Legio Hispana tra le legioni romane impegnate in Giudea nel 132 d.C. per sedare la rivolta di Bar Kochba.
Il nome Eburiacum si ritrova anche nella radice dei toponimi di diverse città della Gallia e Luistania (Portogallo).
In Francia si identifica con Évry, Ivry, Ivrey, Avorio, come nel toponimo Ivry-la Bataille (Eure, Ebriaco nel 1023-1033)
Quindi il toponimo Eburiacum, oltre che nella città di York, lo si ritrova collegato a Ivry (oggi Evry) in Normandia, con il significato di: "terra degli Eburiaci".
Ivry fu il feudo dei conti Eb(u)riaci, ovvero della stirpe che diede i natali al primo Gran Maestro dei Templari.
Singolare anche il fatto che nello stemma di Ivry compaiono, ancora oggi, tre teste di moro bendate, con un richiamo allo scudo di famiglia di Ugo de Paganis (Hugo de Payns) fondatore dei Templari. (rif. “Et in Arcadia Ego - i miti dei Popoli del Mare”, Tipheret Editore).


 
Si legge nel sito di Evry "(...) all'epoca della conquista romana vi venne costruita una villa rustica di proprietà di Apro (latino Aper), che diede il nome di Aproniana o Aperacum". Aper da cui Apro, Aproniani, ovvero gens Apro-nia: i Venulei Aproniani da cui discendono i normanni Pagano da Vecchiano, Pagano da Corsera, Pagano da Ibelin.

Altre curiose coincidenze:

- Pompeia Celerina dei Pompeii era sposata con Lucius I Venuleio Octavius Prisco; la figlia di Pompeia, Calpurnia, era moglie di Plinio il Giovane.
Il nipote di Lucius fu pretore e legato della legione I Italica (come il padre) sotto Antonino Pio, poi console suffetto (forse nell'anno 145), legato imperiale (ossia governatore) della provincia di Spagna, Citeriore e della Britannia (ancora sotto Antonino Pio). E' ben noto storicamente che i bolli laterizi dei Venulei (Vecchiano significa "terra dei Venulei") sono stati ritrovati nel vallo di Adriano in Britannia, oltre al fatto che i Venulei abbiano costruito i teatri di Pisa, di Copia (Sibari) in Calabria e Ferrentino nel Lazio.
- Marcus Artorius Primus (Marci libertus), legato alla leggenda di re Artù, è citato nel Corpus Inscriptionum Latinarum come autore degli ampliamenti e rifacimenti del teatro grande di Pompei, che crollò in seguito al terremoto dell’anno 63 d.C. (C.I.L., X, 841, 807); amico di Plinio il Giovane nei cui possedimenti portò a termine alcuni edifici.
Artù è chiamato l'"Orso di Britannia" da alcuni scrittori. "Arktouros" ("Arcturus" per i Romani, e "Arturo" in italiano), ovvero "guardiano dell'orsa", era il nome che i Greci davano alla stella in cui era stato trasformato Arkas, o Arcade, re dell'Arcadia.
I Venulei appartennero alla casta sacerdotale romana degli Arvali (Frates Arvales), una sorta di monaci-guerrieri (milites: nobili cavalieri) ante litteram.

tempio dei Frates Arvales

La leggenda fa risalire la loro origine al tempo di Romolo, primo re di Roma, anche se si può dedurre dalla storia di Acca Larentia che esistevano prima della fondazione della città.
Il loro compito era l'adorazione di Dea Dia ,dea della fertilità, simile alla Dea Ceres (Iside).

Dea DIA

 Nel mese di maggio si teneva la festa della Dea, della durata di tre giorni, dove venivano offerti sacrifici, con balli, canti e cerimonie ierogamiche, all'interno del tempio della dea.


Carmen Arvale
 Enos Lases iuuate
Enos Lases iuuate
Enos Lases iuuate
Neue lue rue Marmar i peccati incurrere in pleores
Neue lue rue Marmar i peccati incurrere in pleores
Neue lue rue Marmar i peccati incurrere in pleores
Satur fu, fere Marte, limen sali, sta berber
Satur fu, fere Marte, limen sali, sta berber
Satur fu, fere Marte, limen sali, sta berber
Semunis alternei advocapit conctos
Semunis alternei advocapit conctos
Semunis alternei advocapit conctos
Enos Marmor iuuato
Enos Marmor iuuato
Enos Marmor iuuato
Triumpe triumpe triumpe triumpe triumpe


La Famiglia dei Pagani Eb(u)raici è presente con linee genealogiche anche in Toscana e nel sud dell’Italia.
Gli storici accreditano infatti come capostipite dei normanni Pagano da Corsena (oggi Bagni di Lucca) un figlio di Alberto (Aubert de Cravent) e di Aubree de Bayeux (contessa d’Ivry), citato per la prima volta in una carta del 960, in cui il vescovo di Lucca gli vendeva la chiesa di San Paolo a Vico Pacelarum.
Uno dei figli di Beraldo, Rodilando, è ricordato in due carte del 1011, dove compra dei terreni dai canonici di San Martino e, nella seconda, offriva agli stessi canonici le decime che possedeva a San Paolo a Vico Pacelarum
Nel primo dei suddetti documenti, sul margine, è annotato «de isto Rodilando fuit Beraldus qui Paganellus dicebatur anticuus Porcarensium».
Figlio di Rodilando fu Albertino detto dei "Pagano da Corsena”, Cavaliere dell’Ordine del Tau di Altopascio.
Una delle più antiche scacchiere a 64 elementi conosciute si trova curiosamente proprio a Vico Pacelarum nella chiesa di S. Paolo Apostolo, edificata nell’anno 873.
Il figlio Alberto (Aubert de Cravent) e di Aubree de Bayeux (contessa d’Ivry) potrebbe essere sceso in Italia con i primi colonizzatori di quella regione.
Pisa venne saccheggiata dal normanno Rollo (Gongu-Hrolfr, figlio di Rognvaldr, 1' duca di Normandia) nel 860 con 150 navi che arrivarono, risalendo l'Arno, fino a Fiesole.
I normanni “Pagano Ebriaci castra dominus" di Chartres parteciparono alla costruzione della Abbazia di Saint-Pere a Chartres nel 930.


Importante è anche il legame dei Pagano Eb(u)riaci con l’antica famiglia etrusco-romana dei Venulei.  I Pagano da Corsena, come I Pagano da Vecchiano (con legami di sangue con i Venulei) sono entrambi di discendenza normanna secondo gli storici accademici. (cit. Et in Arcadia Ego: i miti dei Popoli del Mare).
Il romanzo "dopo Gesu'" (1909) del lucchese Giovanni Rosadi, giurista, storico, scrittore, ministro dell'istruzione, pastore Alfeo ed amico dell'archivista pisano Clemente Lupi (che si occupo' degli scavi delle terme di Nerone dei Venulei a Pisa), ricostruisce una immagine (romanzata) dei Venulei, importante famiglia etrusca-romana con interessi dalla Britannia alla Spagna.
Si tratta certo di un racconto romanzato ma questo non lo rende meno interessante, suggestivo ed intrigante per una conoscenza dei Venulei, duoviri della colonia Alfea, e del giudeo-cristianesimo, ovvero delle prime comunità cristiane, cioè di famiglie nobili ebraiche (e, nel caso della chiesa gerosolimitana, anche gentili) come la dinastia dei Mi Beth EL, forse da identificare nei discendenti di Giacomo d'Alfeo (da cui il nome Alfea di Pisa), conosciuto come Giacomo il Giusto nei Vangeli, cugino di Gesù, attestati a Pisa dal 1007 ed arrivati in citta' con Tito Flavio dopo il 70 d.C. secondo la Jewish Enciclopedia (1906).

A Nablus - nel 135 dC - termina la rivolta di Bar Kokhba, sedata dalla I° legio Italica con sede nella Moesia Inferiore (attuale Romania e Bulgaria), comandata da Lucius (I) Venuleiis. Bar Kokhba era figlio di Rabbi Gamaliel II, secondo nasi (principe) esseno dopo la ricostruzione del Sanhedrin. Il primo nasi (principe) fu John bar Zecharaiah, conosciuto come "John the Baptist" (San Giovanni Battista, figlio di Zaccaria ed Elisabetta).

Robert Feather - autore de “Il Segreto del Rotolo di Rame di Qumran” - sostiene che i manoscritti di Qumran sono collegati alla rivolta di Bar Kokhba del 132-135 d.C., terza maggiore ribellione degli Esseni della Provincia della Giudea e ultima delle Guerre Giudaico-Romane. La rivolta decreto' la nascita di una forma mistica dell'ebraismo conosciuta oggi come la Kabbalah.

Quindi 2 curiose coincidenze storiche legate al luogo del ritrovamento dei manoscritti di Qumran: 

- la prima che Bar Kokhba era discendente di San Giovanni Battista, fondatore di una comunità che fu all'origine di alcuni movimenti religiosi del I secolo d.C. - giudaici non-rabbinici (come quella fondata da Gesù di Nazareth) e di comunità gnostiche (come quelle fondate da Dositeo, Simone Mago e Menandro).
-   la seconda che tra i tanti posti in Palestina dove costruire un castello, i Pagano di Ibelin lo costruiscono proprio sulle rovine di Nablus (poi Iamnia poi Ibelin oggi Yavne).
Appare al quanto curioso che la Legio I Italica, comandata proprio da un Venulei, si inviata a reprimere la rivolta giudea, detta di Bar Kokhba, nel 132-135 dC e che, al tempo delle crociate, un discendente dei Venulei (Pagano di Ibelin)  fonda in Terrasanta un castello, così come sostenuto dai "pastori" Alfei d'Arcadia a inizio novecento.
La coincidenza che la I legio "Italica" fosse apprezzata per la sua abilità nel costruire strade e ponti (come i cavalieri del Tau di Altopascio) ed avesse come simbolo un toro e sugli scudi due lettere greche (χρ) fornisce a questa vicende un certo alone di mistero.
Sarebbe infatti straordinario, se fosse vero, che, in tempi non ancora del tutto cristiani (132-135 d.C.) sugli scudi di una legione romana fosse riprodotto il simbolo (χρ), che corrisponde all'appellativo di Gesù, il messia!

 Ritornando al toponimo Eburacum (York), nella "Historia Brittonum" si narra che capostipite dei britanni fu Brito o Bruto[1], discendente dai superstiti della guerra di Troia (figlio o nipote di Enea).
Enea, dopo la guerra di Troia, si stabilì in Italia (Etruria) e suo figlio Ascanio fondò Alba Longa.
Da Ascanio o da Silvius, identificato come il secondo figlio di Enea, nacque Bruto, la cui madre morì di parto.
Il ragazzo, di nome Brutus, in una battuta di caccia uccise accidentalmente suo padre con una freccia, per questo venne bandito da Italia.
Dopo essere stato esiliato dall'Etruria, Bruto scappò in Grecia, dove si riunì ad altri "ARCADI"; giunse quindi nell'isola di Creta, dove, nel tempio di Diana, dopo aver praticato un antico rituale, ebbe la visione della terra in cui egli è destinato a stabilirsi: un'isola nel mare occidentale, abitata solo da pochi giganti.


Dopo alcune avventure in Nord Africa, e un incontro ravvicinato con le sirene, Bruto scopre un altro gruppo di Troiani esiliati, che vivono sulle rive del Mar Tirreno, guidati da un prodigioso guerriero chiamato: Corineo, che in seguito divenne re della Cornovaglia.
Dopo aver vagato tra le isole del Mar Tirreno, Bruto, attraversò la Gallia, dove fondò la città di Tours, e infine giunse in Gran Bretagna, divenendo il capostipite del popolo dei britanni.
Il suo regno corrisponderebbe al tempo del sommo sacerdote Eli, giudice e custode dell'Arca dell'Alleanza, in Silo, quando l'Arca dell'Alleanza venne presa dal Filistei. (rif. Et in Arcadia Ego: i MitideiPopoli del Mare).
Il nipote di Brito (secondo Goffredo di Monmouth) sarà Ebrauco (o Eburiaco), che ebbe venti mogli, venti figli e trenta figlie: le figlie le mandò spose in Etruria,.
Una linea di sangue che, come nel mito di Alfeo, sembra unire l'Arcadia, gli Etruschi (Popoli del Mare) e la sacra stirpe del Graal, tanto da poter affermare: Et in Arcadia Ego.






[1] Non dimentichiamo ancora questa altra coincidenza della suocera di Plinio il Giovane (Pompeia Celerina) e sul capostipite dei britanni Brito (Brittius).

"Celer’s daughter Pompeia Celerina married twice. Her first husband was Lucius Venuleius, a Frater Arvalis, patron of Pisae, and Britannia proconsul suffectus. 
Her second husband was Fulvius Gillo Brittius, Britannia consul suffectus and proconsul of Asia".